La maggioranza ha dunque ricomposto, col voto parlamentare di ieri, le sue lacerazioni sulla crisi libica. È però un fatto che la divisione più grave verificatasi fra Bossi e Berlusconi da tanti anni a questa parte ha avuto per oggetto il ruolo dell’Italia in una guerra. Vale dunque la pena di riflettere sulle più generali concezioni leghiste della politica internazionale. Tenuto conto del fatto, per di più, che le posizioni che la Lega ha assunto, nel corso del tempo, sulle crisi che ci coinvolgono, mostrano una certa coerenza e una certa continuità.
La Lega è un movimento territoriale. Opera, per lo più, come un sindacato a difesa degli interessi della sua base nordista. Ma poiché, oltre al Nord (da difendere) e a Roma (a cui strappare concessioni), esiste anche il mondo, la Lega ha dovuto elaborare una sua visione della politica internazionale. Naturalmente, ci può essere solo una corrispondenza parziale e imperfetta fra la visione adottata da un movimento politico e le sue azioni, dato che la politica è fatta di compromessi e di prese di posizione che devono sempre tenere conto delle particolari condizioni del momento. Ma ciò non rende meno importanti le concezioni a cui un partito si ispira.
Le fonti di ispirazione della Lega sulla politica internazionale sono molteplici. Ma, a me pare, è soprattutto con gli ultimi scritti di Gianfranco Miglio, politologo e, per un certo periodo, ideologo del leghismo, che si possono trovare le maggiori consonanze. Miglio immaginava, finita la guerra fredda, che lo Stato in Europa fosse ormai diventato un’inutile «macchina da guerra», destinato alla scomparsa, e che la fine delle minacce internazionali potesse aprire la strada a inediti esperimenti federalisti, nel segno della post-statualità. Messo da parte lo Stato, i «popoli» europei avrebbero potuto liberamente aggregarsi e disaggregarsi lungo linee culturali e territoriali. Il suo «federalismo» non si ispirava agli Stati federali oggi esistenti ma evocava federazioni e confederazioni di città e territori sulla falsariga di esperimenti già tentati nella storia europea (come la Lega anseatica, federazione di città dell’Europa settentrionale, attiva fra il XII e il XVII secolo). Ne derivava un’ostilità di fondo non solo verso gli Stati esistenti ma anche verso l’Unione Europea, vista come una soffocante camicia di forza burocratica che imprigiona popoli e piccole patrie. Sbaglierebbe chi liquidasse quelle tesi come le fantasie di un vecchio professore, prive di importanza. Perché esse hanno un rapporto con le concezioni leghiste.
Benché suggestive, le idee di Miglio avevano un evidente punto di debolezza. Miglio sottovalutava il fatto che la fine della guerra fredda non avrebbe posto l’Europa al riparo da minacce alla sua sicurezza. Come le circostanze hanno poi dimostrato. E quando la sicurezza è in gioco, lo Stato, la «macchina da guerra», torna a svolgere il suo ruolo. Non esistono infatti, allo scopo, alternative plausibili allo Stato e ai suoi apparati della forza.
Nella visione irenica del presente e del futuro (ma con motivazioni diverse da quelle dei pacifisti), propria dell’ultimo Miglio e dei leghisti, c’è non solo la svalutazione del ruolo internazionale dello Stato ma anche il disinteresse, se non l’ostilità, per l’atlantismo, per i legami di solidarietà e di cooperazione militare con gli Stati Uniti. Per questo la Lega solidarizzò nel 1999 con il serbo Milosevic «aggredito» dalla Nato e oggi prende le distanze dagli accordi di Berlusconi con gli Stati Uniti sulla Libia. Per questo rivendica, come fa la Padania, la sintonia con i sentimenti pacifisti e la contrarietà alla guerra libica della maggioranza degli italiani.
Naturalmente, una cosa è la teoria, un’altra la pratica. L’istinto politico di Bossi non si è certo mai fatto offuscare da considerazioni dottrinarie. In cambio del promesso federalismo, Bossi ha sempre accettato di sostenere gli impegni internazionali dell’Italia, si trattasse dei vincoli posti dall’Unione Europea o della partecipazione alla guerra in Afghanistan. Ma si può dire che egli e il suo movimento abbiano sempre «subito» quegli impegni per necessità, non certo approvati perché convinti della loro intrinseca validità. Come ci ricordano, ad esempio, certe dichiarazioni leghiste a favore del ritiro dall’Afghanistan dopo la morte di alcuni nostri soldati.
E veniamo al caso della Libia. Si può legittimamente obiettare molto al modo in cui l’Occidente ha finito per invischiarsi in quel conflitto. Vi hanno giocato un ruolo rilevante, accanto al desiderio di impedire un bagno di sangue, le ambizioni neocoloniali della Francia e le oscillazioni e la debolezza dell’Amministrazione americana. Ma non si può negare che, per come si erano ormai messe le cose, all’Italia convenisse assumere una posizione netta, uscire dall’ambiguità: per contare di più nella conduzione della guerra e per avere voce in capitolo sul futuro libico nell’ipotesi di una uscita di scena di Gheddafi. Prigionieri di uno schema astratto nel quale contano poco, se non addirittura nulla, le alleanze internazionali e la sicurezza e gli interessi del Paese si assicurano solo chiudendo ermeticamente le frontiere, Bossi e i suoi paiono del tutto sordi a questo argomento. Rivelando così un grande punto di debolezza: il persistente carattere «irrealistico» delle posizioni internazionali della Lega, non più adeguate alla forza elettorale e al peso politico che essa ha ormai assunto.
La «missione» che la Lega si è data è la difesa del Nord. Ma in un mondo in cui cresce l’insicurezza e le minacce esterne diventano sempre più pericolose, non serve chiudere l’uscio di casa, non c’è salvezza per l’Italia (e dunque nemmeno per il Nord) al di fuori delle sue alleanze internazionali. I radicali mutamenti in corso in Medio Oriente dovrebbero suonare anche per Bossi come un campanello di allarme. Urge, da parte dei leghisti, una seria revisione delle loro idee su come affrontare le sfide che il mondo esterno ci lancia.
La Lega è un movimento territoriale. Opera, per lo più, come un sindacato a difesa degli interessi della sua base nordista. Ma poiché, oltre al Nord (da difendere) e a Roma (a cui strappare concessioni), esiste anche il mondo, la Lega ha dovuto elaborare una sua visione della politica internazionale. Naturalmente, ci può essere solo una corrispondenza parziale e imperfetta fra la visione adottata da un movimento politico e le sue azioni, dato che la politica è fatta di compromessi e di prese di posizione che devono sempre tenere conto delle particolari condizioni del momento. Ma ciò non rende meno importanti le concezioni a cui un partito si ispira.
Le fonti di ispirazione della Lega sulla politica internazionale sono molteplici. Ma, a me pare, è soprattutto con gli ultimi scritti di Gianfranco Miglio, politologo e, per un certo periodo, ideologo del leghismo, che si possono trovare le maggiori consonanze. Miglio immaginava, finita la guerra fredda, che lo Stato in Europa fosse ormai diventato un’inutile «macchina da guerra», destinato alla scomparsa, e che la fine delle minacce internazionali potesse aprire la strada a inediti esperimenti federalisti, nel segno della post-statualità. Messo da parte lo Stato, i «popoli» europei avrebbero potuto liberamente aggregarsi e disaggregarsi lungo linee culturali e territoriali. Il suo «federalismo» non si ispirava agli Stati federali oggi esistenti ma evocava federazioni e confederazioni di città e territori sulla falsariga di esperimenti già tentati nella storia europea (come la Lega anseatica, federazione di città dell’Europa settentrionale, attiva fra il XII e il XVII secolo). Ne derivava un’ostilità di fondo non solo verso gli Stati esistenti ma anche verso l’Unione Europea, vista come una soffocante camicia di forza burocratica che imprigiona popoli e piccole patrie. Sbaglierebbe chi liquidasse quelle tesi come le fantasie di un vecchio professore, prive di importanza. Perché esse hanno un rapporto con le concezioni leghiste.
Benché suggestive, le idee di Miglio avevano un evidente punto di debolezza. Miglio sottovalutava il fatto che la fine della guerra fredda non avrebbe posto l’Europa al riparo da minacce alla sua sicurezza. Come le circostanze hanno poi dimostrato. E quando la sicurezza è in gioco, lo Stato, la «macchina da guerra», torna a svolgere il suo ruolo. Non esistono infatti, allo scopo, alternative plausibili allo Stato e ai suoi apparati della forza.
Nella visione irenica del presente e del futuro (ma con motivazioni diverse da quelle dei pacifisti), propria dell’ultimo Miglio e dei leghisti, c’è non solo la svalutazione del ruolo internazionale dello Stato ma anche il disinteresse, se non l’ostilità, per l’atlantismo, per i legami di solidarietà e di cooperazione militare con gli Stati Uniti. Per questo la Lega solidarizzò nel 1999 con il serbo Milosevic «aggredito» dalla Nato e oggi prende le distanze dagli accordi di Berlusconi con gli Stati Uniti sulla Libia. Per questo rivendica, come fa la Padania, la sintonia con i sentimenti pacifisti e la contrarietà alla guerra libica della maggioranza degli italiani.
Naturalmente, una cosa è la teoria, un’altra la pratica. L’istinto politico di Bossi non si è certo mai fatto offuscare da considerazioni dottrinarie. In cambio del promesso federalismo, Bossi ha sempre accettato di sostenere gli impegni internazionali dell’Italia, si trattasse dei vincoli posti dall’Unione Europea o della partecipazione alla guerra in Afghanistan. Ma si può dire che egli e il suo movimento abbiano sempre «subito» quegli impegni per necessità, non certo approvati perché convinti della loro intrinseca validità. Come ci ricordano, ad esempio, certe dichiarazioni leghiste a favore del ritiro dall’Afghanistan dopo la morte di alcuni nostri soldati.
E veniamo al caso della Libia. Si può legittimamente obiettare molto al modo in cui l’Occidente ha finito per invischiarsi in quel conflitto. Vi hanno giocato un ruolo rilevante, accanto al desiderio di impedire un bagno di sangue, le ambizioni neocoloniali della Francia e le oscillazioni e la debolezza dell’Amministrazione americana. Ma non si può negare che, per come si erano ormai messe le cose, all’Italia convenisse assumere una posizione netta, uscire dall’ambiguità: per contare di più nella conduzione della guerra e per avere voce in capitolo sul futuro libico nell’ipotesi di una uscita di scena di Gheddafi. Prigionieri di uno schema astratto nel quale contano poco, se non addirittura nulla, le alleanze internazionali e la sicurezza e gli interessi del Paese si assicurano solo chiudendo ermeticamente le frontiere, Bossi e i suoi paiono del tutto sordi a questo argomento. Rivelando così un grande punto di debolezza: il persistente carattere «irrealistico» delle posizioni internazionali della Lega, non più adeguate alla forza elettorale e al peso politico che essa ha ormai assunto.
La «missione» che la Lega si è data è la difesa del Nord. Ma in un mondo in cui cresce l’insicurezza e le minacce esterne diventano sempre più pericolose, non serve chiudere l’uscio di casa, non c’è salvezza per l’Italia (e dunque nemmeno per il Nord) al di fuori delle sue alleanze internazionali. I radicali mutamenti in corso in Medio Oriente dovrebbero suonare anche per Bossi come un campanello di allarme. Urge, da parte dei leghisti, una seria revisione delle loro idee su come affrontare le sfide che il mondo esterno ci lancia.